La notizia è di quelle che aprono uno squarcio di futuro.
Con il progetto Yasuní vincono tutti: l'ambiente, le popolazioni indigene, i paesi del nord del mondo.
La selva batte il petrolio
Firmata a Quito la costituzione di un fondo che servirà a lasciare il greggio dell'Amazzonia dove sta, cioè nel sottosuolo di un parco naturale. Governi e associazioni potranno sottoscrivere «bond» per 3 miliardi e 600 milioni di dollari. Multinazionali battute. Il fantascientifico progetto del presidente ecuadoriano Correa è una realtà.
Tre miliardi e 600 milioni di dollari per tenere il petrolio dove sta, cioè sottoterra: sembrava fantascienza nel 2007 quando il presidente dell'Ecuador Rafael Correa lanciò la proposta di farsi pagare per non toccare quegli enormi giacimenti di greggio nascosti sotto l'Amazzonia, in un parco chiamato Yasuni, situato nel cuore verde del pianeta. Da ieri è una realtà. L'Ecuador e l'Onu hanno firmato a Quito l'accordo che costituisce il fondo internazionale «Yasuni-Itt». Co-gestito dallo United nations development fund (Undp), il trust internazionale è lo strumento finanziario di una vera e propria rivoluzione verde.
Funziona così: il governo dell'Ecuador si impegna a non estrarre circa 900 milioni di barili di greggio amazzonico che le prospezioni avevano scoperto fin dagli anni Trenta e definitivamente accertato nel 2000 nel parco dello Yasuni, in particolare nel segmento chiamato Itt (Ishpingo, Tambococha e Tiputini). Governi, aziende o persone fisiche potranno acquistare certificati di garanzia chiamati Yasuni guarantee certificates, incassabili - senza interessi - se l'Ecuador venisse meno al suo impegno e cominciasse a sfruttare i giacimenti. In questo modo l'intero pianeta si risparmia il versamento nell'atmosfera di oltre 400 milioni di tonnellate di anidride carbonica, oltre a salvare la biodiversità di un'area in cui un solo ettaro di foresta possiede più qualità di piante che in tutti gli Stati Uniti e il Canada insieme, e salvaguardare la vita di almeno tre popolazioni indigene residenti.
Non è semplice green economy, è qualcosa di più. E se «rivoluzione» può sembrare un termine azzardato, non lo è per un paese povero come l'Ecuador, che apre una strada mai tentata: indirizzare le energie per lo sviluppo in direzione diversa dal tradizionale binomio estrazione-industrializzazione.
Il cammino degli Yasuni-bond è stato lungo e accidentato, in patria e fuori, ha registrato momenti di entusiasmo come di vera e propria furia politica, ma alla fine il progetto è arrivato in porto, costituendo in qualche modo la certificazione che governi e movimenti possono trovare punti di contatto.
Innanzitutto, la rivoluzionaria proposta del presidente Correa... non è di Correa. All'origine dell'idea di farsi pagare per lasciare il petrolio nel sottosuolo ci sono i movimenti sociali ecuadoriani, che dal 2003 protestavano contro le continue autorizzazioni che i vari governi (Correa compreso) concedevano alle multinazionali del petrolio. Nel 2007 il presidente l'ha accettata, sponsorizzata a volte con entusiasmo e a volte più o meno obtorto collo, e infine l'ha sposata quando si è reso conto che la strada era finanziariamente praticabile, cioè che qualche ricca economia dell'occidente ci avrebbe messo dei soldi, soldi veri. La ricca economia in questione è la Germania, capofila di una oggi esigua lista di donatori, che si è impegnata a versare 50 milioni di dollari l'anno per i prossimi 13 anni. Hanno preso impegni finanziari anche Spagna, Francia, Svezia e Svizzera, ma la campagna di sottoscrizione degli Yasuni-bond è appena cominciata...
Tre miliardi e 600 milioni di dollari per tenere il petrolio dove sta, cioè sottoterra: sembrava fantascienza nel 2007 quando il presidente dell'Ecuador Rafael Correa lanciò la proposta di farsi pagare per non toccare quegli enormi giacimenti di greggio nascosti sotto l'Amazzonia, in un parco chiamato Yasuni, situato nel cuore verde del pianeta. Da ieri è una realtà. L'Ecuador e l'Onu hanno firmato a Quito l'accordo che costituisce il fondo internazionale «Yasuni-Itt». Co-gestito dallo United nations development fund (Undp), il trust internazionale è lo strumento finanziario di una vera e propria rivoluzione verde.
Funziona così: il governo dell'Ecuador si impegna a non estrarre circa 900 milioni di barili di greggio amazzonico che le prospezioni avevano scoperto fin dagli anni Trenta e definitivamente accertato nel 2000 nel parco dello Yasuni, in particolare nel segmento chiamato Itt (Ishpingo, Tambococha e Tiputini). Governi, aziende o persone fisiche potranno acquistare certificati di garanzia chiamati Yasuni guarantee certificates, incassabili - senza interessi - se l'Ecuador venisse meno al suo impegno e cominciasse a sfruttare i giacimenti. In questo modo l'intero pianeta si risparmia il versamento nell'atmosfera di oltre 400 milioni di tonnellate di anidride carbonica, oltre a salvare la biodiversità di un'area in cui un solo ettaro di foresta possiede più qualità di piante che in tutti gli Stati Uniti e il Canada insieme, e salvaguardare la vita di almeno tre popolazioni indigene residenti.
Non è semplice green economy, è qualcosa di più. E se «rivoluzione» può sembrare un termine azzardato, non lo è per un paese povero come l'Ecuador, che apre una strada mai tentata: indirizzare le energie per lo sviluppo in direzione diversa dal tradizionale binomio estrazione-industrializzazione.
Il cammino degli Yasuni-bond è stato lungo e accidentato, in patria e fuori, ha registrato momenti di entusiasmo come di vera e propria furia politica, ma alla fine il progetto è arrivato in porto, costituendo in qualche modo la certificazione che governi e movimenti possono trovare punti di contatto.
Innanzitutto, la rivoluzionaria proposta del presidente Correa... non è di Correa. All'origine dell'idea di farsi pagare per lasciare il petrolio nel sottosuolo ci sono i movimenti sociali ecuadoriani, che dal 2003 protestavano contro le continue autorizzazioni che i vari governi (Correa compreso) concedevano alle multinazionali del petrolio. Nel 2007 il presidente l'ha accettata, sponsorizzata a volte con entusiasmo e a volte più o meno obtorto collo, e infine l'ha sposata quando si è reso conto che la strada era finanziariamente praticabile, cioè che qualche ricca economia dell'occidente ci avrebbe messo dei soldi, soldi veri. La ricca economia in questione è la Germania, capofila di una oggi esigua lista di donatori, che si è impegnata a versare 50 milioni di dollari l'anno per i prossimi 13 anni. Hanno preso impegni finanziari anche Spagna, Francia, Svezia e Svizzera, ma la campagna di sottoscrizione degli Yasuni-bond è appena cominciata...
Roberto Zanini, il manifesto 5 agosto 2010
In Italia il progetto è stato appoggiato da associazioni di volontariato e dalla federazione dei parchi
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